Mario Borgese - un artista che muove l'antico

Intervista di Rino Felappi

Dalla Sua iniziazione culturale, due lauree, quanto e come e stato il contributo all'avvio creativo artistico?

Ricordo quando ero fanciullo. Mi piaceva disegnare tutto ciò che vedevo. Con il disegno mi sembrava di andare alla scoperta del mondo. Riproducevo cavallucci dalle gambe sottili, con la lesta reclinata sul collo diritto e lungo e con gli occhi enormi e figure troppo imprecise per assomigliare a quelle vere: nondimeno queste per me avevano una loro esistenza reale. I contorni delle cose. i segni, col crescere, divennero più precisi. Poi conobbi la pittura: quella antica dapprima, quella medioevale in seguito, e ancora quella rinascimentale. Questa mi attiro più delle altre. Più particolarmente mi colpì Michelangelo e per diversi anni non feci che riprodurre le sue figure così possenti, dalla linea serpentineggiante, che pur essendo fisse sulle pareti sembrava contenessero in sé, forse per quel loro torcersi su se stesse o forse per il chiaroscuro che le delimitava nello spazio facendole emergere, un dinamismo straordinario. Nel Rinascimento i futuri artisti crescevano nelle botteghe imparando dapprima a mischiare i colori e nel frattempo guardando l'opera del maestro. Le università non erano ancora nate. I più bravi ebbero la fortuna di frequentare le Corti Medicee nelle quali convenivano letterati, artisti, poeti e scienziati: qui avveniva il loro apprendistato culturale; questa era la loro Università.Quel tempo era fortemente intriso di cultura neoplatonica. Non si dimentichi che Cosimo il Vecchio ospitò nella sua villa di Careggi, Marsilio Ficino che lì fondò l'Accademia Neoplatonica Fiorentina ove il dibattito si sarebbe acceso. Il telos del logos platonico avrebbe portato alla riscoperta della prospettiva, già conosciuta dai greci come proiezione della grandezza angolare dell'occhio a differenza di quella brunelleschiana che ne prevedeva la proiezione monoculare. I Greci, scisso il mondo e posta la physis di fronte alla psyche, permisero al buon Leonardo la possibilità di uno sguardo col quale avrebbe potuto indagare la natura. Proprio su questa visione e funzione dello sguardo il Brunelleschi darà corpo a quella rivoluzione della rappresentazione delle immagini in cui gli infiniti aspetti del reale si ordinano e si classificano in un sistema "razionale", si manifestano in quella forma unitaria e universale chiamata "spazio" come si ordineranno e si classificheranno gli infiniti aspetti che si succedono nel tempo, nella storia. Uno dei tanti fattori che consentono la progettualità, quindi nuove forme, quindi nuovi orizzonti di senso in ogni disciplina credo sia lo studio: "...quelli che la pratica senza scienza... Sono come “I nocchieri ch'entra in navilio senza timone o bussola e che mai ha certezza dove si vada" (Leonardo).

Lei ha iniziato a dipingere negli anni sessanta paesaggi "razionalisti", scorci urbani abbandonati, senza vita umana. Secondo G. Seveso quella era una denuncia sociale. Oggi, altri scrive di Lei, a proposito del significato di quel periodo che "l’esistenza umana si è risolta nella tecnica... tutto è diventato duro e inautentico, rappresenta lo scacco al logocentrismo della cultura occidentale (A. Sonito Oliva)". Qual è la Sua verità?

Il Logos, in altri termini la "ratio" occidentale, che stando ad Heidegger ha ormai dimensioni "planetarie'', si costituisce in base ad alcune decisioni teoretiche assunte da Platone in alcuni Dialoghi (Il Sofista, ecc.) tuttora indispensabili ad ogni pensare logico. Anche il sapere si costituisce in base a modalità definite di approccio alle cose e la sua metodologia incarna una opzione definita che prefigura e determina e si specifica in una tecnica del logos medesimo che governa l'intero pensare scientifico, il calcolare matematico e la sua applicabilità al mondo della fisica e della geometria. Costituita la "relazione oggettuale" da un mitico luogo originario ormai scisso, viene contrapposta all'anima, al soggetto psichico, sede delle cose sensibili e soprasensibili, la realtà in sé, i "ta onta". E' l'anima (il soggetto) che fonda e costituisce la conoscenza, il logos, il giudizio, la scienza. Il logos concerne i significati di tutti i rapporti ma rapporto di tutti i rapporti è l'anima. Costituitesi nell'interiorità, come luogo che gli è proprio rispetto al mondo, l'uomo diviene un animai psicologicum, il che significa nel contempo logico. Dotato di logos, unità di misura in base alla quale può ora circoscrivere l'immaginario e il reale. In tale oggettivazione dell'ente si compie un rappresentare, un porre innanzi, un porre di contro. (Gegen Stand, come direbbe Heidegger che mira a presentare ogni ente in modo tale che l'uomo calcolante possa esser ceno del suo dominio. prima concettuale (nella grecità), poi fisico (Galileo), sull'oggetto medesimo. La verità si configura allora come certezza del rappresentare, concludendo così il suo cammino che dalla originaria "aletheia" giunge alla "adequatio intellectus et rei". Su questo tema la questione della tecnica, Heidegger ha scritto un saggio di grande interesse. Questa cultura ha ormai dimensioni planetarie, ed è unidimensionale. Ha deciso la fine di ogni cultura alternativa. Appunto, i miei paesaggi "razionalisti'', facenti parte di un ciclo sul "feticcio urbano", parlano della violenza sorda che sta dietro questi scenari urbani, alle architetture desolanti, alla solitudine di massa che si inscrive tra le nostre pareti e i nostri asfalti quotidiani. Quella violenza esercitata nei confronti dell'uomo dall'aridità impersonale dei meccanismi del vivere di cui si è oggi dotato,

In un ciclo recente Lei crea immagini (statue antiche/frammenti) di soggetti dalle orbite vuote. C'è incompletezza e vuoto. E' un vuoto anche drammatico. Qual è il filo artistico voluto da Lei?

Nel ciclo "il feticcio urbano", oggetto della sua precedente domanda, i paesaggi urbani che ne fanno parte sono privi di qualsiasi accenno di presenza umana e tutta la scena appare bloccata, fuori dal tempo. Sono luoghi di inesistenza inautentica. Vi sono rappresentate piazze, edifici, sculture, manufatti, luoghi della cultura dove domina la regola ma abbandonati. L'immagine è immota e le scene sono vuote. Lì il dramma umano si è concluso. L'incompletezza e il vuoto sono il tema di questo ciclo più recente. Si tratta di un viaggio attraverso il mito in cui i soggetti appartengono a frammenti di statue antiche, per lo più bronzee, immagini inquietanti dalle orbite vuote. La vista è una di quelle soglie con la quale noi costituiamo il mondo e nel contempo costituiamo noi stessi per cui, come organo della visione, deve avere il carattere di completezza. La mancanza di completezza ci appare come un'assenza, dunque il vuoto: una soglia inesplorata che ci rende timorosi e inquieti in cui la catena dei rimandi interpretativi si interrompe. Il frammento è una figura decontestualizzata che appare come sospesa e ritagliata su un fondo bianco che la delimita. Un contesto grafico decentrato di segnaletica pubblicistica ne attualizza il senso.

Antonio del Guercio, nel 1979, scrivendo di Lei, parla "dell’ evocazione di un silenzio urbano successivo alla catastrofe ecologica", proponendo la Sua arte in un movimento milanese di "ricerca". E’ giusto tale giudizio o non era quella Sua realizzazione che prosegue tuttora, l'inizio di una espressione, la Sua 'f

In occasione di un seminario all'università di Pavia organizzato da movimenti di ricerca visiva milanesi e romani, seminario supportato dalla presenza critica di Bonito Oliva, Fagone, Calvesi. Dei Guercio, quest'ultimo citò, in un suo intervento critico su Rinascita, il mio lavoro, parlando appunto "della evocazione di un silenzio urbano successivo alla catastrofe ecologica" come possibile chiave di lettura. La ricerca a Milano in quel periodo era molto vivace e le linee di tendenza erano le più disparate. Nacque in quegli anni una mia proposta espressiva originale che prosegue tuttora.

Nella sua opera - si tratti di "sagome " per affreschi mobili o di "feticci urbani", o di "mito" alcuni critici classificano il tutto come "proposta di oggetti di uso domestico "- lo penso che, dui Suo "vedere" un'opera classica, ad esempio del '600, sia scattata in Lei la "reazione realizzatrice ". Da qui la Sua "opera d'arte " o mito'.' E ancora, gli "affreschi mobili" sono soggetti attivi per interessanti "performances" da Lei realizzale. Le chiedo se essi hanno un legame naturale fin dalla creazione (in Lei) degli stessi affreschi.

Le rivisitazioni rinascimentali sagomate, particolari di celebri opere, dunque frammenti scorporati dal loro contesto e rielaborati con tecniche pittoriche attuali nascevano in funzione di alcune mie operazioni visive dinamiche, di cui ne erano solo una parte, chiamate "performances". Successivamente queste figure ebbero vita propria. Lo stacco dalla composizione originale ai fini di un diverso utilizzo caricò il frammento di un motivo iconografico straniante, l'effetto del dubbio e del suo riconoscimento. Una ripetizione differente, insomma, dove il particolare estrapolato diventava il soggetto principale e immagine di un diverso tema. Il capolavoro rinascimentale nella sua traslitterazione diventa il suo fantasma: manca il dove e il quando e l'identificazione dei protagonisti. Diversamente da coloro che operano nella Pop Art ove l'oggetto d'uso comune venne elevato ad arte, qui accade invece che l'opera originale cui si fa riferimento venga banalizzata. In un suo intervento critico sul Corriere della Sera Antonello Mosca parlò appunto della riproposta di queste mie rivisitazioni come "oggetti d'uso domestico" non dissimili da quelle proposte fatte da artisti Pop americani.

Si può pensare da parte Sua ad una reazione al "cinismo" consumistico insito nella Pop Art americana, sì da creare un nuovo “realismo culturale”. E ancora, che cosa c’è realmente nei “grandi cavalli” o negli “angeli vendicatori con spada sguainata” o nello scontro fra “cavalieri combattenti chiusi fra corazze e bardati di elmo”, nella sagoma del “busto di un antico personaggio”, oppure nell’eburneo “leone accucciato” in guardia?

Se ricordo bene i concetti espressi in un suo scritto dall’amico e intelligente critico U. Gavinelli l’opera d’arte, condensato di emozioni e capacità artigianale, ha perso la sua funzione. In una delle ultime tendenze storiche, la Pop Art (ma ne abbiamo già parlato), si prende atto che ciò che interessa la massa è ben altro che la poesia. L’artista non può che denunciarlo e la Pop Art, appunto, sottrae un qualsiasi oggetto dalla sua funzione comune per riproporlo come soggetto di un quadro per cui risulta scoperta la sua banalità. In tal modo si lascia intendere che la feticistica ammirazione delle masse nella società dei consumi per l’oggetto non è che l’ultima degradazione dell’oggetto (e della massa). Nella mia operazione vi è un modo di operare analogo verso il museo e l’opera d’arte, inserita bel consumo di cultura e nell’affare turistico. Anche qui, per esprimere ancora un concetto di U. Gavinelli, la dittatura del consumismo ha sovrapposto alla funzione di memoria dell’arte un edonismo di nuovo tipo ma sempre consumistico. Non solo i cibi, le vacanze d’agenzia, ecc. sono oggetti privi di senso, ma anche il capolavoro artistico in quanto oggetto mercantile. Del capolavoro è rimasto solo un doloroso frammento e un labile legame con la storia spirituale dell’uomo.

C’è uno scritto che la riguarda, della primavera scorsa, a seguito di una sua mostra a Viareggio: “La regola e il mito” il titolo. Quale rapporto, secondo Lei, tra regola e mito? O dal “mito” verso “la regola”?

In un lavoro dal titolo “Dialogo sul potere” due frammenti della statuaria antica, un Marte acefalo e un Marco Aurelio cieco si confrontano in un dialogo muto e ci trasportano in una antichità favolosa. Essi simboleggiano il dialogo fra il mito e la ragione che sappiamo essere un motivo frequente della filosofia e della letteratura greca. All’inizio fra parole e mito non c’era differenza di significato, poi contro il mythos si impose il logos dei filosofi. Il mito venne confinato nel mondo della favola e dell’emozione. Un processo lento, ma alla fine lo scientismo che precede la modernità lo condannerà definitivamente in quanto estraneo alla verità. La genesi dei miei cicli di ricerca non fu del tutto lineare in quanto per un certo periodo i temi si sovrapposero. Alla fine di questa ricerca, però rimettendo in fila l’esperienza fatta ho maturato l’idea che la separazione dell’umanità del mito da quella della ragione ha prodotto la dittatura del Logos e che esso introduce nell’esistenza la storia, storia come interpretazione e prefigurazione e con essa la coscienza della morte.

Oggi, com’è Mario Borgese: con quali progetti, con quanta consapevolezza della continuità, con quale convinzione del suo “creare”?

Il futuro ci viene incontro, anch’esso è una soglia di possibilità, non ci resta che essere coerenti con se stessi e la propria ricerca. Dunque qualcosa accadrà!

da "Casa e territorio",