Mario Borgese – Frammenti: uno sguardo sul mito Catalogo Mostra Museo Archelogico – Bergamo 2011

La pittura di Mario Borgese va sotto le insegne della contaminazione e della citazione: contaminazione di linguaggi espressivi e citazione di opere d’arte del passato, che sono il punto di partenza per una nuova operazione concettuale che si dipana all’interno del quadro. Sin dai suoi esordi, dopo aver attraversato la Nuova Figurazione, Borgese ha attinto dalla tradizione del passato, arricchita di nuovi significati, sia attraverso l’operazione strettamente pittorica, sia attraverso la progettazione di vere e proprie installazioni. Negli anni Settanta infatti, Borgese realizza ambientazioni con dei grandi pannelli sagomati dipinti ad acrilico-vinilico con brani tratti da scene di battaglia di Paolo Uccello, o dagli arcangeli di Guido Reni, o da Mantegna e Crivelli; come in Threnos del 1980, dove le battaglie di Paolo Uccello facevano contrasto con le battaglie moderne, evocate grazie ad alcune riproduzioni su acetato di Jet e altri velivoli militari, accompagnate da un sottofondo in cui si alternavano la registrazione di un jet al decollo, dei brani da Per il sacrificio di Hiroshima di Krzystof Penderecki, e il rumore del mare. Alcune di queste sagome, poi, erano volutamente non finite, lasciando a vista il disegno. In Metamorfosi del 1983, invece, accanto a una rielaborazione del San Giorgio di Mantegna , Borgese ha simulato una finta esposizione di uno scaffale di un supermercato, offrendo, come se fosse merce reale, una montagna di scatolame, su cui era stata messa una scritta: “Carne di drago vitaminizzata. Apri e gusta”, a voler mostrare che , tramite questa provocazione, la civiltà dei consumi avrebbe consumato anche un oggetto appartenente ad un altro piano di realtà (la carne di drago, appunto). La matrice di questi interventi, però, era soprattutto politica, come dà prova evidente la partecipazione, con una installazione di tele emulsionate, alla Mostra incessante per il Cile, nel 1977 (Milano, Rotonda della Besana, 1-15 maggio 1977), insieme alla partecipazione alla Biennale di Venezia dell’anno precedente, dedicata a Ambiente, Partecipazione, Strutture culturali, insieme al Collettivo Autonomo Pittori di Porta Ticinese, che si era formato nel 1974.
Di quella esperienza, Borgese ha conservato gli elementi di fondo della ricerca espressiva, solo portando il discorso all’interno del quadro. La rivisitazione del repertorio figurativo classico, infatti, ha dato luogo a un abbinamento paratattico di elementi che non avviene più in un ambiente, ma solo sulla superficie della tela, attraverso il contatto fra la resa realistica dei frammenti di scultura antica ed elementi di architettura modernissimi, se non dei veri e propri moduli astratti, insieme a inserti grafici come scritte o piccole frecce, che riproiettano la rappresentazione su un piano di operazione concettuale: rimarcano che qui c’è un accostamento poetico, non ossimorico, di elementi contrastanti, o almeno appartenenti ad aree semantiche e a mondi di forme differenti fra loro, che ne arricchiscono il significato. Borgese vi lavora con una tecnica complessa, fatta per stratificazione di materiali e mascheramenti di porzioni di tela, in modo che il rilievo della figura affiori progressivamente dal fondo. In un secondo tempo, poi, dipinge il fondo di bianco, in modo da scontornare la figura, marcare i contorni in maniera netta, e infine interviene sugli elementi accessori, attraverso stencil o inserendo brani di pittura astratta. L’effetto a una prima impressione sembrerebbe fotografico, ma se ci si avvicina alla tela ci si accorge di un lungo, meditato e stratificato lavoro di pittura. Gli inserti astratti, però, ricordano che siamo su un piano pittorico e fugano qualsiasi tentativo di cercare uno spazio reale. In questo senso va letta anche la presenza ricorrente di frecce, forme autoreferenziali del linguaggio visivo, che servono a focalizzare il soggetto, come una sottolineatura all’interno della composizione. Al tempo stesso, questi segnali manifestano la struttura e la sostanza del quadro, rendono evidente che questo è costruito per assemblaggio di immagini; fugano insomma la tentazione di una lettura iperrealista: l’elemento archeologico, con la sua apparente minuzia descrittiva, dipinto con una nitidissima leggibilità, viene indicato come soggetto, e questo segnale che focalizza l’attenzione allo stesso tempo le sottrae alla mimesi e le riporta nel piano della pittura. Del resto, il problema si poneva in maniera più urgente, in questo caso rispetto ai precedenti d’apres rinascimentali, dal momento che Borgese ha iniziato a tradurre in pittura delle forme scultoree come i bronzi e i marmi antichi, preoccupandosi oltretutto della loro fedele restituzione plastica (ma giocando su un cambio di materia, tanto che a volte è difficile capire quando stia citando un’opera di fusione o un marmo antico trasformato dalla pittura in bronzo).
La citazione archeologica, in questo contesto, acquista un senso per la sua natura di frammento, per il valore estetico che nel Novecento ci si è abituati ad attribuire al non finito, all’oggetto rotto. Con la sua incompletezza che ricorda il passare inesorabile del tempo, il brano di scultura antica emerge per entrare in un rapporto dialettico con la modernità: un dialogo a distanza che può avvenire più per contrasti che per integrazioni o, come sembra volerci suggerire la pittura di Borgese, per accostamenti poetici.